Vita associativa 15 settembre 2022
Da tempo lo stato di salute dell’informazione italiana è precario. Il poco onorevole 58esimo posto occupato dal nostro Paese nella classifica internazionale sulla libertà di stampa certifica un declino che pare inarrestabile. L’indipendenza, il pluralismo e l’autorevolezza dei media – come ha ricordato a più riprese il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – sono indispensabili per avere un’opinione pubblica matura e garantire la tenuta delle istituzioni democratiche. In Italia poco è stato fatto nel corso degli ultimi anni per rilanciare il settore, la cui sopravvivenza è messa a dura prova dalla crisi di un modello industriale che ha sì una dimensione globale, ma allo stesso tempo richiede interventi strutturali da parte dei singoli governi.
Nella campagna elettorale in corso, il tema informazione è fra i grandi assenti. Nelle proposte programmatiche delle varie forze politiche non c’è nulla che riguardi la salvaguardia del ruolo dei media.
Un paradosso, soprattutto se si considera che in tanti, anche in questi giorni, denunciano il tentativo di apparati di disinformazione stranieri, a cominciare da quelli russi, di influenzare e condizionare l’opinione pubblica italiana. Questo pericolo, già segnalato durante il periodo della pandemia e sventato proprio grazie al lavoro degli organi di informazione professionali, dovrebbe spingere i partiti a riconoscere e valorizzare il ruolo della stampa attraverso misure mirate per affrontare la delicata fase di transizione digitale. Invece, si assiste ad una lenta ma inesorabile perdita di quote di mercato.
In Italia la media giornaliera di quotidiani venduti è di poco superiore al milione di copie. Vent’anni fa era cinque volte di più. Il digitale è in crescita, ma non in misura tale da compensare le perdite della carta. Se questa situazione avesse riguardato un altro settore economico, si sarebbero moltiplicati i tavoli di confronto per cercare soluzioni. Neanche le minacce e le aggressioni fisiche ai cronisti e l’aumento esponenziale del precariato e del lavoro povero sembrano meritare l’attenzione delle forze politiche.
È un atteggiamento preoccupante: fatte salve poche eccezioni, limitate a singoli esponenti del mondo politico, i giornali e i giornalisti, soprattutto quelli che ancora fanno domande scomode e promuovono inchieste, vengono percepiti come un fastidio.
Anche nella legislatura che si è appena conclusa le proposte di legge per contrastare i bavagli e rafforzare le tutele del lavoro dei cronisti sono finite su un binario morto.
La crisi epocale del settore richiede un approccio di sistema. È necessario che le forze politiche spieghino in che modo intendono difendere l’informazione professionale.
Il contrasto al precariato e alle cosiddette querele temerarie, la tutela delle fonti e del giornalismo di inchiesta, l’eliminazione di vecchi e nuovi bavagli, a cominciare da quello introdotto recentemente con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, sono temi cruciali.
Pensare, inoltre, di affrontare la crisi strutturale del mercato con misure, necessarie ma non strutturali, inserite nelle varie leggi di stabilità, senza porsi il problema di una nuova legge per il settore è un’operazione di cortissimo respiro.
La legge sull’editoria in vigore è del 1981. Ha consentito di governare il passaggio dal piombo alla composizione a freddo. L’attuale fase di transizione digitale richiede un confronto serrato fra politica, giornalisti ed editori per giungere ad una nuova legge di settore. Sono in gioco migliaia di posti di lavoro, la sopravvivenza di imprese e testate giornalistiche e, soprattutto, la qualità della nostra democrazia.