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Vita associativa 11 gennaio 2017

Addio a Peppino Calise, cronista di razza

Giuseppe Calise

Come si fa a raccontare Peppino Calise, scomparso ieri, a chi non è giornalista?

   O fai un elogio “istituzionale” – uomo di potere nell’Ordine dei giornalisti e nel Sindacato – dicendo della sua bravura, del fiuto da capo della Cronaca del Mattino negli anni ruggenti – i formidabili 80 – del quotidiano, quelli  della direzione di Pasquale Nonno quando il giornale vendeva in media 180mila copie al giorno (con punte di 220mila il lunedì dopo le imprese di Maradona) o rischi di scrivere banalità e magari anche qualche “cattiveria” assolutamente fuorviante.
   Non so come lo “dipingeranno” altri colleghi a cui sarà dato l’ingrato compito di farne l’elogio funebre. Io cercherò – sì, cercherò… – di dirvi chi era per me il Peppino che incontravo tutti i giorni e con il quale c’era un grande rispetto reciproco e un’amicizia profonda, sincera, mai però ostentata.
Non sono stato un suo “ragazzo di bottega”, non ho mai lavorato nella redazione Cronaca del Mattino, anzi, seppur più giovane di lui, ero, in un certo senso un “pari grado”. Lui boss della Cronaca, io capo della redazione Esteri.
  E dunque, dovrò prendere in prestito figure mitiche del cinema americano di genere – Jack Lemmon o Walter Matthau –  per raccontare il Capocronista Peppino Calise: franco, diretto, talvolta colorito – troppo “colorito” –  fino al punto che, quando andò via dal giornale, gli dedicammo una prima pagina con la sua frase più celebre, quel “chitebbivo” con il quale apostrofava colleghi e colleghe quando doveva spronarli a osare, indagare, investigare e soprattutto scrivere presto e bene per “chiudere” in tempo le pagine e i pezzi per la prima edizione del giornale. L’epiteto salace, la battuta, l’aspetto  irriverente di ogni notizia era la sua cifra, la sua “frusta” con cui teneva tutti i ragazzi avvinti alla sua filosofia del lavoro e della vita. Gli piaceva di recitare il ruolo di burbero ma si vedeva lontano un miglio che fingeva, perché alla fine tutto era una risata, uno sfottò un modo leggero di far lavorare sodo, duro, incessante la ciurma della Cronaca, quella che batteva tutti sul tempo, che non conosceva riposo e che nel nome di Peppino e del suo esempio, era il motore autorevole e incessante del Mattino. Per Peppino, tutti i suoi “ragazzi” si buttavano nel fuoco del lavoro ogni giorno e lo difesero fino all’ultimo anche quando trame maligne cercarono di offuscarne in modo subdolo e illegale il ruolo.
 C’è una foto, pubblicata sul Mattino on line di oggi, che lo ritrae, proprio all’ingresso del giornale, con un gruppo di giovani colleghi, i “suoi” ragazzi, nel momento in cui “lascia” il giornale da pensionato. Pochi minuti prima aveva ricevuto una standing ovation da tutti. Sembrava impossibile che Peppino “chitebbivo”  potesse andare in pensione. Ecco, io credo che quella foto sia il più bel omaggio al collega, ma soprattutto all’uomo Calise. E non sapremo mai quanto profondo fosse il legame tra la sua ciurma e lui. Riuscire, da capo, a tenere unita una redazione così di frontiera in una città come Napoli, credo che sia la più grande eredità che il Peppino Calise ruvido, irriverente, ma anche scanzonato e sornione, eppur immenso professionista abbia lasciato a noi e a Enzo, suo figlio, che abbracciamo commossi.
Armando Borriello
presidente Sindacato unitario giornalisti Campania

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