Dettaglio Post

Giornalisti minacciati 14 luglio 2023

Condannato a pagare 51mila euro per una cosa che non ha mai scritto, ricorso alla Cedu

Condannato per diffamazione e a un maxi risarcimento di 51mila euro per qualcosa non ha mai scritto. È quanto accaduto al giornalista campano Mimmo Pelagalli. La Cassazione ha stabilito che il titolo dell’articolo era diffamatorio, peccato che il collega era soltanto un collaboratore esterno del giornale e su quel titolo non avrebbe mai potuto mettere le mani. In più la sentenza arriva a 25 anni dalla pubblicazione di quel pezzo sul Corriere di Caserta, giornale che da anni non è più in edicola. Il giornalista, assistito dall’avvocato Marina De Siena, ha già promosso ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo e chiesto contestualmente al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere la sospensione degli atti di precetto. La Federazione nazionale della stampa italiana e il Sindacato unitario giornalisti della Campania sono vicini al collega “che subisce da questa sentenza un danno gravissimo, assolutamente sproporzionato rispetto alle sue finanze, che dovrà affrontare senza la garanzia di un lavoro stabile. Purtroppo l’utilizzo della querela in Italia rappresenta uno dei bavagli più pericolosi per la libertà di stampa, ed è tanto più odiosa per i collaboratori, sottopagati e sfruttati. Da tempo chiediamo un intervento del legislatore per limitare l’utilizzo delle denunce temerarie nei confronti dei cronisti, ma senza alcuna risposta. Inoltre, le querele bavaglio insieme alla lunghezza inaccettabile dei processi rappresentano un cocktail micidiale che finisce per comprimere irrimediabilmente il diritto di cronaca”.

Per approfondire:
L’avventura giudiziaria di Mimmo Pelagalli inizia nell’ormai lontano 1998: incaricato da free lance di cronaca giudiziaria, scrive un breve articolo titolato “Caso Imec, spuntano nuovi indizi per i tre alla sbarra” firmato “Mimmo Pelagalli” e pubblicato dal giornale quotidiano “Corriere di Caserta” il 29 maggio 1998.

Per l’articolo, ritenuto diffamatorio dalle persone indagate all’epoca dei fatti narrati nell’articolo, e per tali citate nel pezzo, Pelagalli subisce un processo per diffamazione aggravata a mezzo stampa, unitamente al direttore del giornale imputato per omesso controllo, procedimento che si risolve con un’assoluzione da parte del Tribunale di Benevento, stabilita con sentenza n. 1903 del 21 settembre 2000 e poi passata in giudicato.

Secondo il giudice sannita, competente per territorio in quanto la tipografia del Corriere di Caserta era attestata a Vitulano, nel mandamento giudiziario di Benevento, la modalità di narrazione dei fatti è da ritenersi attinente alla cronaca giudiziaria ed il titolo dell’articolo, pur dal tono eclatante, rispecchia comunque il costume della stampa locale, volta ad attirare l’attenzione del lettore sul contenuto sottostante. Per altro il giornalista, sin dalle indagini preliminari a suo carico, svolte dalla Procura della Repubblica di Benevento, ha sempre affermato di essere responsabile solo del contenuto dell’articolo e non anche del titolo.

Quasi contemporaneamente viene intentato un separato giudizio in sede civile presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, citando per danni il Pelagalli, il direttore della testata e l’Editoriale Corriere S.r.l. per ben 1,3 miliardi di lire, moneta all’epoca in corso legale in Italia. Ma con sentenza n.2147 del 2003 il Tribunale adito rigetta la domanda condannando gli attori alla refusione delle spese di lite. La coppia ci riprova proponendo ricorso alla Corte di Appello di Napoli, che con sentenza n. 2900 del 2006 rigetta l’appello compensando però le spese di entrambi i gradi di giudizio. Questo perché ritiene il titolo un po’ forte. Fin qui – ma anche oltre – la coppia non riesce a dimostrare il danno proveniente tanto dallo scritto di Pelagalli, quanto dal supposto titolo diffamatorio, mancando totalmente il nesso di causalità.

Con sentenza n.18769 del 2013 la Corte di Cassazione, alla quale i coniugi Ferro e Virgilio ricorrono, statuisce testualmente: “In conclusione il ricorso, per la parte in cui attinge la questione dell’autonoma valenza diffamatoria del titolo, merita accoglimento. Atteso che la motivazione della decisione impugnata risulta in parte quantomeno insufficiente. Ciò comporta la cassazione della decisione impugnata assorbiti i ricorsi incidentali, e il rinvio alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione per nuova motivazione sul punto”.

Ma la Corte di Appello di Napoli, nel giudizio di riassunzione, presso il quale le controparti del Pelagalli si costituiscono fuori termine, emette la sentenza di condanna n. 5104 del 2019 che non tiene conto dei numerosi elementi di prova e testimoniali esibiti da Pelagalli a suo discarico: ovvero che posto al di fuori della redazione giornalistica – con le tecnologie editoriali del tempo – non era in grado sia tecnicamente che giuridicamente di formulare il titolo, non avendo alcun accesso al sistema editoriale del giornale.

Pelagalli documenta anche il proprio status di giornalista freelance (all’epoca dei fatti pubblicista), mediante la presentazione della fattura di vendita del proprio servizio all’editore della testata. Infine chiede di sentire a discarico un testimone, che mai sarà chiamato dalla Corte di Appello di Napoli a confermare quanto illustrato dall’avvocata De Siena e quanto dimostrato per tabulas.

iscriviti alla newsletter