Giornalisti minacciati 13 luglio 2021
La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei poteri pubblici. Questa la ragione alla base della decisione della Corte costituzionale che, il 22 giugno scorso, ha dichiarato incostituzionale la previsione dell’obbligo della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Oggi il deposito delle motivazioni della sentenza, definita «storica» dal sindacato dei giornalisti, i cui legali hanno sollevato l’eccezione di incostituzionalità dinanzi al Tribunale di Salerno.
Per i giudici, le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, sono incostituzionali perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero. Tuttavia non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di campagne di disinformazione, condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi.
«Chi ponga in essere simili condotte, eserciti o meno la professione giornalistica, certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”, ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia», spiega una nota della Corte costituzionale.
Dopo aver rinviato di un anno, nel giugno 2020, la decisione sulle questioni sollevate dai tribunali di Salerno e di Bari per dar modo al legislatore di approvare una nuova disciplina della materia in grado di meglio bilanciare il diritto di cronaca e di critica con la tutela della reputazione individuale, la Corte è intervenuta dichiarando costituzionalmente illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948).
Illegittimo anche l’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo, che estendeva le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge del 1948 anche alla diffamazione commessa per mezzo della radio o della televisione.
Escluso, invece, il contrasto con la Costituzione dell’articolo 595, terzo comma, del codice penale, che in caso di condanna prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione ovvero della multa.
Ribadendo che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti «costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico», nella motivazione della pronuncia i giudici evidenziano come la reputazione individuale sia «del pari un diritto inviolabile, strettamente legalo alla dignità della persona» e, pertanto, «aggressioni illegittime a tale diritto» possono pesantemente incidere sulla vita delle vittime.
Secondo la Consulta e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, la pena del carcere non è di per sé incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero, ma va eventualmente applicata solo in casi di eccezionale gravità. «Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalisti, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione», osserva la Corte.
Resta, ad ogni modo, la necessità di una riforma della disciplina vigente in materia, allo scopo di «individuare complessive strategie sanzionatorie – conclude la Consulta – in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione all’attività giornalistica e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni posto in essere nell’esercizio di tale attività».
PER APPROFONDIRE
La sentenza della Corte costituzionale (n. 150/2021) è disponibile sul sito web della Consulta (qui il link diretto).