Giornalisti minacciati 22 luglio 2016
Un articolo di Roberto Paolo sulle conseguenze del ddl sull’Editoria
Ieri pomeriggio in Commissione Affari Costituzionali del Senato si è consumato l’ennesimo strappo tra il Governo Renzi ed il resto del Paese. Il relatore di maggioranza della legge di riforma dell’editoria, il senatore Roberto Cociancich, un avvocato catapultato in politica per meriti scoutistici (era il capo del giovane boy scout Renzi), ha posto il veto del Governo su tutti gli emendamenti presentati. Niet. Il provvedimento deve passare così com’è. Una chiusura totale che è la giusta conclusione di un iter, prima alla Camera e ora al Senato, in cui la maggioranza del Pd ha fatto muro a qualsiasi forma di dialogo con gli organismi di categoria dei giornalisti e delle federazioni di piccoli editori, eseguendo fedelmente gli ordini del potente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria, Luca Lotti (un altro finito in politica solo perché compagno di merende di Matteo Renzi).
Una riforma che così com’è scritta fa acqua da tutte le parti e non riforma per davvero un bel niente. I suoi unici obiettivi sono due: 1) portare un po’ di milioni in più ai futuri stati di crisi dei grandi giornali (soldi presi dall’extragettito del canone Rai e da un’assurda e poco chiara tassa sugli operatori pubblicitari); 2) far chiudere le piccole testate indipendenti, edite da cooperative di giornalisti: in massima parte, per intenderci, giornali locali, provinciali o regionali, come il “Roma”.
Per arrivare a tanto, quel geniaccio di Lotti si è inventato persino una norma in base alla quale i contributi pubblici saranno dati in misura maggiore a chi fa fatturati maggiori. Vale a dire che chi guadagna più soldi avrà dallo Stato più soldi, e chi guadagna meno soldi sarà costretto a chiudere. Un Robin Hood all’incontrario. E vista la situazione delle vendite dei giornali cartacei e degli spazi pubblicitari, enormemente diversificata tra Nord e Sud, il risultato sarà di far chiudere le testate locali e dare più soldi a quelle nazionali, ma soprattutto di far scomparire tutta la piccola editoria indipendente del Meridione d’Italia, dando invece più soldi ai giornali del Nord. È l’ennesimo schiaffo razzista del Governo Renzi al Sud. Con un’aggravante: che così si va anche a colpire il pluralismo dell’informazione, si vuole soffocare la libertà di opinione e di stampa.
A nulla è valso che le posizioni dei piccoli editori, rappresentati dalla File, da Mediacoop, dalla Fisc, dall’Alleanza delle cooperative e da tante altre sigle, siano state appoggiate praticamente da tutti i gruppi parlamentari ad eccezione dei pentastellati: identici emendamenti sono stati proposti da Forza Italia, Ala, Lega Nord, Ncd, dai gruppi misti e finanche dalla minoranza del Pd. Nemmeno è servito l’appello dell’Ordine dei Giornalisti che chiedeva di non veder ridurre il proprio Consiglio nazionale ad appena 36 componenti (nemmeno due reppresentanti per regione), un numero che rischia di paralizzare il funzionamento dell’Ordine. A nulla è servito l’intervento della Federazione della Stampa, che chiedeva di adottare norme che regolamentassero le grandi concentrazioni editoriali in corso.
Macchè. Per il Governo nessun emendamento è ammissibile. Nessuna mediazione, nessuna discussione, nessuna apertura a nessuno: il disegno di legge deve essere blindato. È la solita logica della Banda dei Tre (Renzi-Lotti-Boschi). E la batosta delle ultime elezioni comunali non è servita a mitigare la protervia di un apparato di potere che ora vuole dare una pericolosa spallata alla libertà di informazione.
Non sfugge a nessuno che in questo modo il ducetto fiorentino sta strizzando gli occhi proprio ai grandi gruppi editoriali: il suo amico Riffeser, il gigante inginocchiato di “Stampubblica”, il nascente colosso Rcs-La 7, l’ossequioso Caltagirone che sui miliardi della riqualificazione di Bagnoli sta giocando la sua partita filtrando con il commissario mandato da Renzi a usurpare i poteri del sindaco legittimamente eletto dai napoletani. Sono proprio i grandi editori, infatti, a beneficiare di stati di crisi e prepensionamenti, e sono sempre loro che ora mirano a rimpinguare le casse grazie alla chiusura dei piccoli giornali indipendenti editi da cooperative senza scopo di lucro.
È l’ennesimo segnale d’allarme per la democrazia e per tutto il Paese. E va a sommarsi alla pericolosa riforma elettorale, che consegnerà l’Italia ad un partito unico, e alla confusionaria e risibile riforma costituzionale. Al punto in cui stanno le cose, non resta che avviare una campagna civile per invitare a votare No al referendum d’autunno, così da mandare in pensione il piccolo Erdogan toscano prima che lui mandi in pensione la democrazia.