Vita associativa 15 aprile 2022
Conobbi Letizia Battaglia nel 2014. Mi regalarono un libro con la sua biografia di
Giovanna Calvenzi. Lo lessi tutto d’un fiato in poche ore. Fui completamente rapita da quella straordinaria fotoreporter, dalla sua umanità, determinazione. Battagliera, senza peli sulla lingua, a volte esagerata, pronta a difendere gli ultimi, a combattere le ingiustizie e sopra ogni cosa documentare senza se e senza ma ciò che succedeva. La documentazione era per lei fondamentale.
Di lì a poco lei fu ospite per una mostra fotografica al Maxxi di Roma dove tenne anche una “lectio magistralis”, termine che poco le piaceva però. Una fotoreporter senza la minima vanità, anzi detestava la vanità. Mi catapultai con un treno a Roma, la sentii parlare estasiata. Si occupava di fotografia e parlava di fotografia in un modo talmente diretto, empatico, emozionante che rimasi nuovamente senza parole ed ero felice.
Dopo quell’episodio, abbiamo avuto diversi momenti di lavoro insieme con lei e con la figlia Shobha, anche lei fotoreporter di fama internazionale. Sono stata diverse volte a Palermo da lei, a casa sua. Casa che mi resta impressa nella memoria in ogni dettaglio. Tutto trasuda fotografia e ogni angolo è una testimonianza fortissima.
Il mio contatto con lei fu un tramite per portarla a Napoli dopo tantissimi anni di lontananza. Fu ospite infatti nel 2016 del Festival di giornalismo Imbavagliati diretto da Desirée Klain. Protagonista di una mostra fotografica curata da Stefano Renna, collega e amico da diversi anni, con il quale abbiamo condiviso tantissime esperienze lavorative. Fra queste finanche trasportare materialmente le sue fotografie ed occuparci dell’allestimento al Palazzo delle Arti di Napoli.
Letizia entrava in contatto con le persone senza far nulla di particolare, con una eccezionale empatia. Quando venne a Napoli volle andare a Scampia. Era come se conoscesse già tutti. Salutava, chiedeva cose normalissime alle persone come: “Come fate a fare la spesa? Qualcuno vi aiuta? Che mangiate oggi?”, e tutti con lei si aprivano, raccontavano la loro storia. In una frase: era interessata davvero alle vite altrui e questo trapelava.
Quando feci l’esame da professionista, l’argomento della mia tesina fu “Donne e fotogiornalismo” ed ovviamente non potei che intervistarla. Lei, donna indipendente, aveva iniziato a 40 anni a fotografare nonostante avesse delle figlie già grandi, era assolutamente un esempio e una voce da sentire.
Di seguìto alcune delle domande, anche se una sua risposta in particolare mi colpì e mi ripeté anche a casa sua: “Non mi piace essere definita come fotografa antimafia. Perché, esistono forse quelli pro mafia? E poi non mi sono occupata solo di mafia, mi ribolle il sangue essere definita così”.
Perché secondo te ci sono meno donne che uomini nel fotogiornalismo?
«Per lo stesso motivo per cui le donne a parità di lavoro vengono pagate di meno. Prepotenza di genere, discriminazione sociale. Le donne sono bravissime fotogiornaliste, ma dietro devono avere una struttura giornalistica che le sostenga. In genere queste sono dirette da uomini che hanno più fiducia nei fotografi maschi».
Credi che le donne abbiano uno sguardo ed un approccio diverso dall’uomo alla fotografia?
«L’approccio e lo sguardo sono assolutamente diversi, noi donne siamo diverse, lo dimostriamo anche nella nostra vita sentimentale. Chiaramente diverse dagli uomini non superiori. Il talento è un’altra storia. Non basta essere donne e sensibili per fare buone foto. Ci vuole molto di più. Talento, essenzialmente. Rispetto per la vita ed anche per la morte, disciplina, cultura, impegno, ma ancora, molto di più, conta essere privi di vanità».
Che difficoltà incontravi quando uscivi per fotografare? E quanto l’essere donna ti ha aiutato o penalizzato alle volte?
«Avevo già avuto tante difficoltà nel vivere in Sicilia la mia vita di donna vivace e libera che ero assolutamente preparata alle difficoltà che incontravo giorno per giorno con la macchina fotografica al collo. Comunque le difficoltà non mi hanno bloccata, quasi non me ne accorgevo, ero troppo presa dal mio obbligo di documentare quello che stava succedendo. Qualche volta arrivavano calci, sputi, minacce, lettere anonime.
Qualche attimo di sgomento, un po’ di paura e si andava avanti. Sapevo di vivere un tempo ed una regione assediata dalla mafia, dovevo documentare e denunciare quello che stava succedendo.
Però devo specificare che ho avuto anche dei vantaggi. La macchina fotografica al collo di una donna fa meno paura.
Il contatto con le altre donne, con i bambini, con i ricoverati dello psichiatrico, con la povertà, era mediato da un approccio diverso».
Perché secondo te gli uomini fotografi sono più noti delle donne fotografe? Il nostro è un mestiere maschilista? I tuoi colleghi erano scettici per il fatto che eri l’unica donna a lavorare con loro come fotografa?
«Prima di risponderti voglio premettere che non sempre la fotografia è un mestiere, spesso è anche arte, è anche politica.
Ci sono sempre più donne fotografe brave perchè valgono e perchè lavorano sodo senza vanità. Il successo è tutt’altra cosa. Dipende da molti fattori non tutti nobili. Personalmente ho dovuto aspettare parecchi anni per essere riconosciuta in Italia, pochi per quanto riguarda il riconoscimento estero. All’inizio sono stata guardata con diffidenza, con ironia. Il grande fotografo Enzo Sellerio in una intervista rilasciata all’espresso sulle donne e la fotografia rispose che le donne erano molto importanti. Ma solo perchè avevano partorito fotografi maschi.
Prescindendo da questa bizzarra dichiarazione devo precisare che però non mi importava molto del loro giudizio quando era scettico anche perché nel mio gruppo di lavoro, quello che dirigevo per il giornale L’ORA, quasi tutti maschi, vigeva il rispetto assoluto».
La vita privata per una donna credi che possa rappresentare un limite più che per un uomo? È per questo che meno donne si impegnano in questa professione?
«Si, la vita privata limita la donna. I bambini, l’amore, la famiglia sono dei vincoli insormontabili. Bisogna aspettare che i bambini crescano, che l’amato capisca e aiuti. Un po’ complicato, ma per le donne le cose sono sempre state un po’ più complicate. Io personalmente ho incominciato a fotografare professionalmente a quasi 40 anni, le mie figlie erano già grandi».
Vieni chiamata “la fotografa della mafia”, il tuo lavoro è stato importantissimo nell’informare e documentare. Questo appellativo ti rispecchia o senti che è riduttivo?
«Queste due parole, fotografa della mafia, mi fanno orrore, mi viene da urlare. Ogni volta che esce un articolo sul mio lavoro, sulle esposizioni che faccio, un po’ ovunque, i titoli sono sempre gli stessi. Mafia mafia mafia. Anche se espongo altre foto la parola mafia i deve essere sempre. Il sensazionalismo mi sembra un modo facile di fare informazione».
Hai mai avuto paura o avuto la sensazione di sentirti inadatta in quanto donna?
«Ho avuto spesso paura, ma non mi sono mai sentita inadeguata come donna. Anzi mi è piaciuto esserlo».