Giornalisti minacciati 3 febbraio 2021
Un processo d’appello bis a Catania che riguarderà l’aggravante del metodo mafioso. È quanto disposto dalla quinta sezione penale della Cassazione nel procedimento che vede imputato Francesco De Carolis per le minacce rivolte al giornalista Paolo Borrometi, vicedirettore dell’Agi. I giudici di piazza Cavour hanno annullato con rinvio la sentenza che era stata emessa dalla Corte d’appello di Catania il 4 aprile 2019, con la quale la pena per l’imputato, accusato di tentata violenza privata, era stata fissata in 2 anni, 4 mesi e 20 giorni, e non era stata riconosciuta l’aggravante del metodo mafioso, che, invece, era stata ritenuta sussistente dal tribunale di Siracusa in primo grado nel 2018, quando De Carolis era stato condannato a 2 anni e 8 mesi.
A ricorrere contro la sentenza d’appello, lamentando il mancato riconoscimento dell’aggravante, era stato il pg di Catania, le cui tesi erano state condivise dal sostituto pg di Cassazione Giovanni Di Leo, il quale aveva sollecitato l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata. A tale richiesta si sono associate in udienza anche le parti civili costituite nel processo: oltre a Paolo Borrometi, la Fnsi, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e l’Ordine dei giornalisti della Sicilia.
Bisognerà ora attendere il deposito delle motivazioni della sentenza e poi verrà fissato il procedimento d’appello bis a Catania.
Emergono intanto nuove, inquietanti ‘attenzioni’ rivolte al giornalista, sotto scorta per le sue inchieste sui clan, da esponenti mafiosi. Il contesto è quello fornito dall’operazione condotta martedì 2 febbraio dal Ros dell’Arma dei Carabinieri, nell’ambito dell’indagine condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Palermo, nei confronti di 23 indagati ritenuti a vario titolo responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso (Cosa nostra e Stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione e altri reati.
Dalle intercettazioni contenute nel decreto di fermo emerge infatti l’insofferenza di uno degli indagati, Simone Castello, per le attività d’inchiesta che sul suo stile di vita e sulle sue attuali occupazioni stava, a suo dire, svolgendo in questi mesi «un noto giornalista impegnato sul fronte antimafia», appunto Borrometi. «Ma noi teniamo presente…», commenta l’intercettato.
Un “problema”, quello della “visibilità” procurata dal giornalista, che, si sottolinea nell’ordinanza, riguarda non solo il singolo associato oggetto delle inchieste giornalistiche, ma anche l’intera associazione, tanto da spingere Castello a «richiedere ospitalità in altri paesi siciliani presso altre famiglie mafiose».
A testimoniare il ruolo fondamentale dei media nell’impedire quella strategia dell'”inabissamento” che, scrivono i magistrati, già Bernardo Provenzano aveva posto come “regola di vita”.